«Grazie per l'intervista. Mi raccomando: scrivi positivo. Niente che possa strappare la lacrima. A presto, Giovanna».
Il giorno dopo averla intervistata ricevo questo sms da Giovanna Fabbri, quarant'anni, gli ultimi tredici su una sedia a rotelle a causa di un incidente in macchina. Per fare della sua storia qualcosa di lacrimevole avrei dovuto lavorare molto di fantasia, perché, al di là di ogni evidenza, Giovanna è una donna fortunata. E non solo per il fatto di essere uscita viva dalle lamiere della sua automobile.
Ci incontriamo in un bar di corso Garibaldi, a Milano. Arriva da sola, spingendo le ruote della sua carrozzina. Dice: «Scusa, ci ho messo un po', ma la pancia mi ingombra». La pancia è una bambina che nascerà tra un paio di settimane, forse si chiamerà Greta, forse Sofia. Nell'ora che trascorriamo insieme sedute al tavolino del bar perdo il conto delle persone che si fermano a salutarla, si informano sulla bambina, la casa nuova, il lavoro. «Sono fortunata perché ho avuto due vite. Tutte e due felici, ma è questa seconda che sto vivendo quella più ricca e intensa».



Partiamo dalla prima.
«Famiglia agiata, genitori divorziati, brava a scuola. Mi iscrivo a Lingue e comincio a fare pubblicità: ho portato il caffè a Forattini nello spot della Lavazza diretto da Gillo Pontecorvo. Ho annunciato che aspettavo un bambino tenendo in mano un raviolo Buitoni diretta da Bob Giraldi. Poi Coca-Cola, Aperol. Con i soldi che guadagnavo mi pagavo i viaggi, d'estate. Dalle pubblicità sono passata a piccole cose in Tv: qualche fiction, Casa Vianello (ero una di quelle che in ogni puntata facevano incazzare la Mondaini). Ho cominciato a crederci sul serio che quella potesse essere la mia strada. tanto che mi sono trasferita a Roma, per fare cinema. Ma non è stata una bella esperienza. L’unico ricordo piacevole che mi rimane di quei mesi è un incontro con John Malkovich. Ho fatto un'apparizione in un film con lui e Andie MacDowell. Ma in fase di montaggio la mia scena è stata tagliata».
Poi, l'incidente.
«Febbraio 1994. Le 18.30 di un venerdì, guidavo in autostrada, all'altezza di Piacenza, ed ero in auto da sola. Non ho mai capito che cosa sia successo, non l'ho neanche mai sognato (a molti succede, a me no). Forse un colpo di sonno, forse il destino e basta. Non sono mai andata in coma, mi tenevano sedata. Quando hanno smesso con i farmaci e ho capito che cosa era successo, mi sono trovata davanti a un bivio: fare di tutto per vivere o fare di tutto per morire».
Ha scelto subito?
«Istintivamente direi di sì, ma la verità è che non lo so. Sicuramente mi è servito molto stare nei centri di riabilitazione, dove ho incontrato ragazzi che muovevano soltanto gli occhi perché la loro lesione del midollo spinale era appena qualche centimetro più in alto della mia. Lì è cominciata la mia seconda vita, quella in cui ogni evento si trasforma in un'opportunità».



Che ne è stato della Giovanna di prima?
«Quasi non esiste più. All'inizio guardare indietro era troppo doloroso, e così mi sono allenata a prendere le distanze. Ho fatto molti esercizi di visualizzazione: mi vedevo su uno schermo, rimpicciolivo la mia immagine, la mandavo avanti veloce, poi la rallentavo, le toglievo i colori. Non è un lavoro facile, bisogna capire quando fermarsi: il rischio è staccarsi troppo e diventare impermeabile alle emozioni. Ma io credo di aver trovato la giusta distanza. I miei amici mi dicono che sono cambiata tanto rispetto a prima, migliorata. Loro sono il mio ponte col passato, mi capita di domandare loro chi ero, e di starli ad ascoltare ore, come se raccontassero di un'altra persona. Una persona che era molto "io, io, io". Ma poi, quando ti accorgi che da sola non ce la fai, e non solo perché sei su una sedia a rotelle, capisci che è solo attraverso le relazioni con gli altri che si va avanti».
Sono stati gli amici a salvarle la vita?
«È stata l'autonomia a salvarmi la vita, perche è attraverso l'autonomia che riacquisti la dignità. Molte persone improvvisamente paralizzate ritornano in culla e, accudite dalla famiglia, smettono di crescere. E di vivere davvero. In casa mia ognuno ha sempre badato a se stesso e questo mi ha aiutata a recuperare l'autonomia. Non subito, ma presto: dieci mesi dopo l'incidente tornavo a guidare la macchina e vivevo da sola. In una casa il più possibile normale: preferisco fare a meno degli ausili per disabili, anche perché la vita, fuori, è piena di barriere architettoniche. I bagni sono un incubo: l'ultima cosa che faccio prima di uscire di casa è la pipì. E comunque rimango con l'ansia: dove posso andare se dovessi avere bisogno?».
Ha trovato qualche modo per mettere la sua esperienza al servizio degli altri? Non so, qualche associazione...
«No. Ma perche, in fondo, io non mi penso come una persona con l'handicap. L’unica cosa che ho tentato di fare è stata proporre, in Rai, dove io lavoro, un programma in cui una persona sulla sedia a rotelle viaggiava con un comico, una specie di Turisti per caso. L’avevo scritto insieme con Enrico Bertolino e l'idea ci piaceva molto, ma il direttore Marano mi ha detto che avrebbe fatto il 4 per cento di share. Viva il servizio pubblico».


Giovanna Fabbri nella campagna stampa per Nolita

Però, adesso che è incinta, lo Stato le offrirà qualche aiuto?
«Vuole scherzare? L’ufficio disabili mi ha detto che loro, al limite, possono mandare qualcuno a lavarmi, ma io non ne ho bisogno. Mi hanno consigliato di chiamare l'Ufficio Minori, dove hanno cercato di dissuadermi in ogni modo dall'avviare una richiesta. Dicono che hanno centinaia di domande di persone a reddito zero e che non ho diritto all'assegno di maternità. Ma io non cercavo soldi, volevo solo capire se è prevista qualche forma di aiuto per chi, come me, sta su una sedia a rotelle e tra poco dovrà prendersi cura di un bambino».
La maternità è una scelta a cui molte donne nelle sue condizioni rinunciano.
«È stata la mia sfida più grande: perché sono disabile, perché ho quarant'anni, perché ho una carriera che non voglio lasciare. Non avrei mai pensato di fare un figlio. All'inizio, dopo l'incidente, non avrei mai pensato neanche di avere più un uomo. E invece ho incontrato molti uomini che hanno apprezzato la mia forza, ma anche la mia femminilità. Le mie amiche single mi hanno preso in giro per anni, dicendo che loro non trovavano uno straccio d'uomo e io rimorchiavo anche sulla sedia a rotelle. Qualche volta, all'inizio, quando vedevo un bel paio di scarpe con i tacchi mi veniva tristezza. Ma con il tempo ho capito che la seduzione non ha niente a che fare con il fatto che stai seduta o in piedi. È come ballare: io ballo tantissimo dentro di me».
Come definirebbe il suo handicap?
«Un problema che si vede. Quelli di chi non è su una sedia a rotelle sono soltanto più nascosti. E forse, per questo, anche più difficili da risolvere».
Ma lo sconforto non la prende davvero mai?
«I miei amici, che mi vedono sempre solare, mi chiedono: ci sei o ci fai? Ci sono, sono fatta così. L’incidente non lo penso come una sfiga, ma come una sfida. Quella consonante cambia tutto».